Terminato il ciclo delle composizioni dei celebro Sessanta Studi di Virtuosità e di Trascendenza e delle prime due sonate, il compositore avrebbe voluto (cit.) “salpare verso mari più vasti, ma non riuscii a definire subito un’idea precisa della musica in cui far dialogare la chitarra con altri strumenti, sia in forma concertante (nella musica da camera) che in veste solistica (nei concerti per chitarra e orchestra).”
Non lo persuadevano i modelli esistenti, e i tentativi di creare un “sound” personale ed profilo stilistico al di fuori della musica per chitarra sola, per parecchi anni non lo portarono a risultati a lui soddisfacenti.
“Come erano trascorsi nell’abbondanza i sette anni degli Studi e delle prime Sonate, vennero i sette anni della penuria e, procedendo nel buio più fitto”, Gilardino scrisse soltanto i tre lavori che collocano la sua figura in un ambito fortemente “tenebrista”. Si tratta delle “Variazioni sulla Follìa”, le “Variazioni sulla Fortuna” e la “Musica per l’angelo della Melancholìa”.
Le Variazioni sulla Fortuna di sono state scritte nel 1991 e, come in quelle sulla Follìa, scritte due anni prima, riuscì a forgiare una forma originale: anziché assumere l’intero corpo del tema, in ogni variazione vengono utilizzati dei frammenti separati – come raccolti sul campo dopo una deflagrazione – collegati da elementi musicali del tutto estranei al tema stesso, ma coerenti con i suoi lacerti.
Ne scaturisce un vero e proprio viaggio in un mondo sospeso tra la realtà (gli elementi tematici) ed una “trance” (gli elementi alieni).
Questa fase tormentata del processo creativo del compositore (ho decine di registrazioni di lezioni dove mi parla apertamente di questi elementi del suo scrivere musica negli Anni Novanta) è stato ed è per me un nucleo di energia che – credo – alimenterà la mia ricerca sul repertorio per il tempo che avrò a disposizione.
La mia lettura delle Variazioni sulla Fortuna tenta di riportare in musica quanto sopra pur intervenendo pesantemente sulla pagina scritta.