Non ricordo il tempo che mi fu necessario a riemergere dalla profondità dell’arte di Cecconello dopo il nostro primo incontro, come non ricordo, se dovessi descriverli singolarmente, quali furono gli elementi presenti nei suoi dipinti che mi portarono così vicino al sentido dell’artista. Già avevo avuto la fortuna di visitare i suoi luoghi della memoria e quelli immaginari dalle finestre che le sue essenziali cornici aprivano nelle pareti che ospitavano i suoi lavori e già, da anni, avevo percepito la solidità materica e la densità del suo linguaggio.
L’incontro fu illuminante: immerso quasi in una realtà che, ricordo bene, aveva forti caratteristiche oniriche, camminando per il grande studio del pittore compresi in pochi istanti che ero circondato non solo da lavori di straordinaria fattura, da amari tentativi e da veri e propri trionfi di energia ma anche da una materia densa che riempiva ogni angolo di quel luogo. Non era una sensazione e non si trattava di uno stato emozionale che sì, avvertivo, senza che però questo intaccasse l’osservazione pura. Ma entrati in una stanza più piccola, adiacente lo studio, dove Cecconello conserva alcune fotografie di varie epoche della sua famiglia e dei suoi amici nonché una quantità innumerevole di premi e riconoscimenti, compresi di che cosa si trattava.
Nella stessa stanza erano esposti, in una mostra in miniatura, una serie di lavori con vari temi. Uno di questi colpì la mia immaginazione in modo particolare. Si trattava di un fondo nero nel quale, in caselle rigidamente allineate, erano incastonati due file di busti umani stilizzati. Oltre che delle gambe, i busti erano privi delle braccia e la testa era solo un abbozzo. Quei busti, quelle stilizzazioni umane, non identificabili, non erano altro che una scura raffigurazione della solitudine dell’uomo, solo ed incapace di liberarsi dal ruolo che gli è stato assegnato fin dal momento della nascita.
Era questo, che avvertivo, nello studio del pittore: una profonda sensazione di solitudine artistica, una ricerca condotta intimamente, lontano dal chiasso. Un essere soli nelle scelte e nei percorsi: è ed è stata la chiave che mi ha aiutato a leggere ed interpretare con ancor più chiarezza gran parte dei lavori di ieri e di oggi dell’artista.
L’operazione successiva di associazione tra l’osservazione di quelle tele e la mia intenzione di trasformare in musica il messaggio che avevo ricevuto è stata tutto sommato lineare. Da anni, nel mio repertorio, figura lo Studio di Virtuosità e di Trascendenza di Angelo Gilardino intitolato “Soledad – Omaggio a Francisco Goya”. Sull’incipit di questa pagina – che reputo tra quelle più geniali dell’intera serie dei Sessanta Studi – ho scritto sei metamorfosi in brevi movimenti basandomi su alcuni dei principali costrutti melodici e armonici in esso contenuti.
Metamorfosis de la Soledad è una composizione per chitarra sola scritta in omaggio a Gastone Cecconello e alla sua arte o, ancora meglio, alla solitudine artistica che da essa trasuda.
È dedicata al chitarrista italiano, l’amico e collega Alberto Mesirca, che nella sua interpretazione trasforma in suoni esattamente ciò che avevo immaginato.
Manuele Cecconello, fotografo e regista, ha usato la splendida interpretazione di Mesirca come colonna sonora di un suo corto, dedicato al padre. Lo potete vedere qui sotto.