Troppo spesso negli ultimi anni nel corso delle mie lezioni, si verifica un equivoco al quale rispondere porta via una marea di tempo. Cercherò di concentrare una risposta in un unico post allo scopo di – se non azzerare – diminuire le possibilità che ricapiti.
Molto in breve: un allievo scopre un brano di repertorio per chitarra di cui non conosceva l’esistenza; non fa differenza che si tratti di una intera Sonata o di un foglio d’album. Dopo essersene procurato una copia, lo legge e lo studia per qualche giorno quindi oltrepassa la porta dell’aula con sguardo deciso, con quella necessità di dimostrare che il lavoro che sta portando avanti ha dato un frutto importante.
Credo non ci sia modo migliore di iniziare una lezione.
Ebbene, sistema lo spartito sul leggio quindi mi guarda.
“Ho scoperto questo brano da un suo disco e vorrei imparare a suonarlo.”
(Ecco chi è che può attribuire premi nel mondo della discografia contemporanea: un musicista in erba che scopre una nuova pagina di repertorio semi-sconosciuta da un tuo disco e smania dalla voglia di studiarla.)
Non faccio alcun tentativo per nascondere il mio entusiasmo che, sommato al suo, crea una piacevole atmosfera di attesa.
Prende il via una timida esecuzione; ripetizioni sparse di qualche periodo ancora balbettante o qualche frase non ancora a memoria. Si arriva alla fine ed è facile leggere negli occhi del giovane musicista soddisfazione mista a sconforto.
“Che succede?” – chiedo.
“Non va ancora bene.”
“No, ma non c’è di che preoccuparsi. C’è bisogno di tempo e studio.”
Inizia quindi la lezione, nel dettaglio, passando al setaccio soluzioni di varia natura, prima gli impianti dinamici poi le scelte interpretative, poi i colori e i timbri eccetera.
Mentre spiego, è impossibile non notare lo smarrimento nel giovane interprete. Mentre snocciolo paragoni, cerco di creare immagini per evocare un colore, lo sguardo dell’allievo è adesso quello di un naufrago: ciò che sta ascoltando è evidentemente lontano da ciò che si immaginava.
Non più difficile o più articolato o di più complicata esecuzione, semplicemente più lontano.
“Ci sono domande?” – chiedo sempre.
Raramente sento la risposta positiva ma in casi come questo la risposta non arriva.
“Qualcosa non è chiaro?” – incalzo.
“No, veramente è tutto chiaro ma non capisco.”
“Che cosa?”
“Lei non lo suona così.”
Chiunque abbia fatto lezione con me sa che raramente (per usare un eufemismo) imbraccio la chitarra per fare esempi. Negli anni ho scoperto che per il mio metodo di insegnamento è una procedura deleteria.
“Certo!” – rispondo – “Anzi, è ovvio che non lo suoni così. Veramente non ho la più pallida idea di come lo suono.”
Lo sguardo è adesso smarrito e sulla testa dell’allievo sbucano una mezza dozzina di punti interrogativi.
Ragazzi, una volta per tutte: costruisco e vi suggerisco soluzioni a qualsiasi livello partendo da ciò che siete, da ciò che suonate e da come lo fate. I suggerimenti cambiano in base ad una infinità di parametri che riguardano l’aspetto umano e non mi riferisco solo al vostro, ma anche al mio. Non mi è mai – dico mai – capitato di leggere in due modi simili uno stesso costrutto musicale, anche se minuscolo o insignificante. Ancora: ideare mentalmente un manuale per suonare una composizione – ancora peggio uno schema che ricalchi il modo in cui IO la suono! – non è insegnamento è bassa copisteria; suggerirvi una soluzione che funziona perché è quella che applico io è una lezione inutile di cui non rimarrà un bel nulla. Quello che faccio quando vi indirizzo da qualche parte con la chitarra è modellare ciò che ascolto intervenire sulla fondamenta che voi avete scavato.
Siete futuri musicisti e come tali dovete ascoltare e leggere molto, riascoltare e rileggere ancora e poi ancora daccapo per lungo tempo (diffidate da chi si chiude in una stanza a ripetere passaggi per decine di ore) ma alla fine l’obiettivo principale sarà quello di formare nel vostro cervello un’idea originale o vi ritroverete in un gigantesco calderone nel quale è diventato impossibile procedere a qualsiasi distinzione.